
Anna Karenina, che con il suo nome dà il titolo al romanzo, è una donna bellissima, cui non mancano intelligenza e fascino, oltre che la dote di sedurre; tuttavia, Anna non è la nostra eroina. Le scelte che prende, in definitiva, non la portano alla svolta desiderata né alla felicità che si era immaginata. Dopo aver dispensato alla cognata sinceri consigli matrimoniali e aver mostrato al lettore un animo colmo di semplicità e benevolenza, Anna si ritrova coinvolta in un amore inaspettato, che la travolge. È l’amore romantico e apparentemente eroico per il conte Vronskij, quello per cui il lettore parteggia, poiché è l'unico che pare assicurare la felicità della protagonista.
Ma Anna, con le sue vicissitudini, i suoi pensieri, le speranza e i tormenti, non è l’unico personaggio di questo libro; accanto alla sua, si dipanano molte altre storie, che raccontano di ricevimenti, lavoro in campagna, matrimoni e viaggi. Quella che colpisce maggiormente è la storia di Levin, il cui cuore appartiene a Kitty, a sua volta invaghita di Vronskij. Anche Levin, come Anna, all’inizio del romanzo, desidera ardentemente un cambiamento nella propria vita e il suo timore è quello di non poterlo realizzare:
«Mai potrai essere diverso da come sei. Sarai sempre e comunque colui che eri, con i tuoi dubbi, con l’eterno malcontento per te stesso, con i tuoi vani tentativi di cambiare, con le tue cadute e con l’eterna attesa di una felicità che non ti è stata concessa e che per te è irraggiungibile» (p. 103).
Anna Karenina è, infatti, un romanzo sulla felicità. Quando riusciamo a raggiungerla? - sembra chiedersi Tolstoj -, In cosa possiamo trovare una giuda? Nelle nostre pulsioni e passioni per non tradire noi stessi o piuttosto nelle regole della società o nella religione? Ma, soprattutto, cosa vale la pena sacrificare per raggiungere l’ideale di felicità che ci si immagina?
Anna e Vronskij sono disposti a sacrificare quasi tutto di ciò che li rendeva orgogliosi e soddisfatti nella loro precedente vita, scegliendo una strada estrema e una nuova vita fuori dall’ordinario, per questo il loro amore ha il greve peso della colpa. È, tuttavia, impossibile stabilire se, prendendo altre decisioni, i due amanti sarebbero stati più felici, oppure se la loro storia non avrebbe potuto essere diversa da quella che hanno vissuto. Sicuramente il lettore vede Anna trovarsi in una situazione senza vie di fuga ed estremamente asfittica.
«E ora e sempre solo le mille occupazioni del giorno e la morfina della notte riuscivano a soffocare un pensiero tremendo: che ne sarebbe stato di lei se lui avesse smesso di amarla?» (p. 723).
Levin deve mettere da parte l’orgoglio e, per un po’ di tempo, la tanto amata vita in campagna, ma non rinuncia a ciò che lo definisce e lo contraddistingue, al suo essere più intimo, come a una vita ordinaria. Su questo è illuminante la riflessione di Natalia Ginzburg:
«La realtà usuale e consueta, lungi dall’essere meschina o squallida, è assai preziosa e assai bella. È questa la storia di molti personaggi di Tolstoij: la scoperta della realtà e la delizia di scorgere nella realtà qualcosa di prezioso e inaspettato, qualcosa che i sogni non contenevano, e che rende possibile la coscienza del proprio essere».*
E Levin, al termine del romanzo, alza gli occhi al cielo e comprende finalmente cosa alberga entro la propria anima di essere mortale.
In un’opera “perfetta nel grande come nel piccolo”** non può non esserci la presenza della morte, che, come un sottile filo rosso, apre e chiude il libro. All’inizio vi appare soltanto come qualcosa di accidentale e di poco conto, mentre squarcia il romanzo con prepotenza a metà, diventando il tormento di Levin. Qui la morte è concreta, tangibile e infonde paura, ma la presenza di Kitty la confina nel novero delle cose affrontabili e accettabili, mentre c’è già una nuova vita a farsi spazio.
Al termine del romanzo, invece, è Anna a dover fare i conti con questa idea, senza però nulla sapere e nulla aver realmente capito su di essa: la morte si fa ancor più spietata e disperata.
Anna Karenina è un capolavoro sulle scelte radicali della vita e su quanto queste ci rendano artefici del nostro destino. In un'esistenza di bivi esistenziali che sembrano aporie e di vortici sentimentali e intellettuali, Levin anela da tempo a un principio superiore in cui riporre la propria fiducia per trovare la direzione giusta da seguire, oltre che consolazione e reale appagamento. Dopo aver a lungo cercato, sarà il miracolo della vita a fargli comprende che solo un'entità inesplicabile e invisibile può svolgere questo compito, e così trova pace:
«-Signore pietà! Signore aiutaci! Signore perdonaci!- fu la preghiera che si scoprì a pronunciare con ancora le mani fra i capelli e che ripeté più volte - lui non credente - e non soltanto con la voce. In quell'istante preciso Levin scoprì che non solo i suoi dubbi, ma la sua capacità razionale di credere in Dio non gli impedivano di rivolgersi a Lui. La polvere che copriva il suo cuore era svanita, volata via. A chi poteva rivolgersi, del resto, se non a colui che stringeva tra le mani la sua vita, il suo cuore e il suo amore?» (p. 769).
La strada che Anna seguirà la porterà a un ben differente finale.